I dati sulle COB del Ministero del Lavoro relativi al 2022 continuano a far registrare un’evidente tendenza post pandemia all’incremento del numero di dimissioni volontarie nelle aziende private.

Il fenomeno spesso genera rilevanti disfunzioni sotto il profilo organizzativo e programmatico; si pensi, ad esempio, alle dimissioni rassegnate da un lavoratore su cui l’impresa ha effettuato investimenti in formazione; o se si tratta di una risorsa destinata ad avviare o a portare avanti uno specifico progetto.

Se sotto il profilo organizzativo la tendenza registrata dovrebbe spingere le aziende a pensare a modelli gestionali più orientati al benessere dei lavoratori; parimenti opportuno è agire sul vincolo contrattuale valutando strumenti idonei a consolidarlo, rendendo conseguentemente, più complessa la decisione del lavoratore di recedere dal rapporto.

Senza dubbio in tal senso una misura adeguata nell’ambito di un contratto di lavoro a tempo indeterminato è il c.d. patto di stabilità, o la clausola di durata minima, soprattutto se prese in considerazione unitamente a strumenti quali il patto di non concorrenza, l’incremento della durata del periodo di preavviso, per citarne solo alcuni.

Trattasi di una clausola contrattuale o di un patto separato dal contratto di lavoro, che possono essere previsti sia nel contratto di assunzione (in tal caso prende il nome di clausola di durata minima garantita) che in un momento successivo (in questa ipotesi si parla di patto di stabilità), con cui si limita la libertà del lavoratore di recedere dal rapporto di lavoro a fronte di un corrispettivo per un periodo di tempo determinato.

Quadro normativo

Il patto di stabilità (al pari della clausola di durata minima garantita) è uno dei pochissimi istituti giuslavoristici che non ha una disciplina normativa ah hoc, né affidata alla contrattazione collettiva, potendo le parti definirne i contenuti liberamente, seppur nel quadro delle norme civilistiche, dell’esigenza di rispettare il dettato dell’art. 36 Cost., oltre che nell’ambito del mantenimento degli equilibri contrattuali.

In merito alla legittimità del patto, la giurisprudenza sia di merito (Trib. Milano 16 febbraio 2023 n. 246) che di legittimità (Cass. 14457/2017; Cass. 18122/2016; Cass. 17010/2014; Cass. n. 18547/2009; Cass. 1435/1998) ne hanno confermato la potenziale validità, chiarendo che, fuori dalle ipotesi di giusta causa di recesso, “nessun limite è posto dall’ordinamento all’autonomia privata per quanto attiene alla facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato attribuita al lavoratore, di cui egli può liberamente disporre pattuendo una garanzia di durata minima del rapporto, purché”:

  1. a fronte di un corrispettivo per il lavoratore, non necessariamente economico,
  2. limitato nel tempo,
  3. a fronte di un risarcimento del danno nella ipotesi di violazione del patto, al di fuori delle ipotesi di recesso per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c., il risarcimento del danno a favore del datore.

Tale tutela è, infatti, simile a quella prevista nel rapporto di lavoro a tempo determinato, dovendo, in ipotesi di recesso anticipato al di fuori dell’ipotesi di giusta causa, la parte inadempiente risarcire la controparte per avere interrotto anticipatamente il rapporto rispetto alla scadenza naturale.

Non sono tuttavia mancati orientamenti tendenti a mettere in dubbio la validità di una clausola di stabilità nel solo interesse del datore di lavoro, ritenendo la possibilità di recedere dal rapporto ai sensi dell’art. 2118 c.c. una norma di carattere inderogabile.

Forma e contenuto del patto

Chiarita, quindi, sulla base delle norme sopra richiamate, la validità del patto, se ne evidenziano di seguito gli aspetti di tipo formale e di contenuto.

Sotto il profilo formale opera il c.d. principio della libertà di forma. Invero, l’art. 1341, c. 2, c.c. non annovera il patto di stabilità fra le pattuizioni prive di effetto senza specifica approvazione per iscritto. Ciò premesso, è tuttavia opportuno utilizzare sempre la forma scritta.

Quanto ai contenuti, le clausole di durata minima garantita e i patti di stabilità possono innanzitutto essere previsti nell’interesse del lavoratore, con la precipua finalità di fornire una garanzia di conservazione del posto per un periodo di tempo determinato.

Parimenti frequente è la stipula di patti di stabilità nell’interesse del datore di lavoro, proprio per far fronte alle richiamate esigenza organizzative e programmatiche.

Sovente, infine, le parti prevedono un patto di stabilità nell’interesse di entrambe le parti, con un reciproco impegno a non recedere per il periodo stabilito.

Corrispettivo

Requisito di validità del patto è certamente la previsione di un corrispettivo a favore del soggetto che subisce limitazioni nella libertà di recesso. In particolare, la giurisprudenza muove dal principio generale secondo cui: “nei rapporti a prestazioni corrispettive la reciprocità dell’impegno non va valutata atomisticamente – come contropartita della assunzione di ciascuna delle obbligazioni -bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni. L’equilibrio tra le prestazioni corrispettive, sempre per principio generale, è rimesso -fuori dalle ipotesi patologiche di vizio del consenso) alla libera valutazione di ciascun contraente, che nel momento in cui conclude il negozio resta arbitro della convenienza o meno della assunzione della posizione contrattuale.”

Resta fermo il limite alla libertà negoziale delle parti di non poter derogare ai diritti attribuiti al lavoratore dagli articoli 36 e 39 Cost., che riconoscono una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.

Ne consegue che, nell’ipotesi di previsione di un patto di stabilità, il trattamento retributivo complessivo concordato dovrà essere superiore al minimo costituzionale e dovrà essere prevista una specifica voce retributiva a copertura del patto. In caso contrario si registrerebbe una mancanza di proporzionalità della retribuzione con conseguente illegittimità del patto.

La giurisprudenza, tuttavia, precisa che la corrispettività deve essere valutata rispetto al complesso dei diritti e degli obblighi che identificano la posizione contrattuale di ciascuna parte. Pertanto “nell’equilibrio delle posizioni contrattuali il corrispettivo della clausola di durata minima garantita nell’interesse del datore di lavoro, dunque, è sì necessario ma può essere liberamente stabilito dalle parti e può consistere nella reciprocità dell’impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non- monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore.”

La penale

La Clausola di durata minima e il patto di stabilità prevedono di norma l’applicazione di una penale avente carattere risarcitorio in ipotesi di inadempimento agli obblighi previsti che, per le ragioni predette, non può non trovare la propria disciplina nell’art. 1382 c.c.: “La clausola, con cui si conviene che, in caso d’inadempimento o di ritardo nell’adempimento, uno dei contraenti é tenuto a una determinata prestazione, ha l’effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa, se non é stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore.

La penale é dovuta indipendentemente dalla prova del danno.”

La penale, normalmente, viene quantificata espressamente nel patto o nella clausola con un importo fisso. In assenza di esplicite pattuizioni è accettabile prevedere una penale pari alle retribuzioni dovute dalla data della cessazione del rapporto a quella del termine di durata del patto.

In caso di previsione di una clausola eccessivamente onerosa, il giudice può provvedere a ridurne l’importo in via equitativa.

La giusta causa e l’impossibilità sopravvenuta

Resta altresì pacifico che in presenza di una giusta causa di recesso, venendo in rilievo la norma inderogabile di cui all’art. 2119 c.c., non trova applicazione il patto in esame.

Parimenti inefficace è il patto nelle ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione, si pensi al caso, ad esempio, di detenzione del dipendente e di conseguente impossibilità di rendere la prestazione lavorativa (Cass. n. 6714/2021).

Conclusioni

Il fenomeno delle dimissioni, benché in Italia non abbia assunto le proporzioni della great resignation americana, assume un impatto significativo soprattutto in contesti di piccole e medie impese.

È opportuno, quindi, sia al momento dell’assunzione che in corso di rapporto, prendere in considerazione misure di rafforzamento del vincolo contrattuale come il patto di stabilità o la clausola di durata minima che, ove previste nell’interesse di ambo le parti, non assumono costi per l’azienda.