L’emergenza epidemiologica e l’impatto delle restrizioni sugli spostamenti delle persone produce, inevitabilmente, effetti anche sui lavoratori sia per gli spostamenti casa-lavoro sia per quelli relativi alle trasferte cui sono comandati dai datori di lavoro.

Si intrecciano peraltro provvedimenti provenienti da diverse autorità pubbliche: oltre ai decreti del Presidente del consiglio dei ministri, infatti, le restrizioni sono state previste da ordinanze emesse da diverse regioni, con conseguenti limitazioni ulteriori.

Ma come impattano tali provvedimenti sui rapporti di lavoro, specie per quei lavoratori che per l’esecuzione della prestazione lavorativa sono chiamati a frequenti spostamenti in diversi luoghi rispetto alla sede di lavoro.

La normativa nazionale e regionale per la gestione dell’emergenza da COVID-19

A questo proposito, occorre ricordare che i provvedimenti introdotti dal legislatore durante l’emergenza epidemiologica da virus COVID-19 sono stati numerosissimi, tant’è che la stessa Gazzetta ufficiale, nel sito internet, ha dedicato un’apposita sezione in cui sono allocati tutti quelli legati al Coronavirus.

Invero, durante tale periodo, la Gazzetta ufficiale è stata pubblicata anche in edizione straordinaria per accogliere provvedimenti di grande impatto: Decreto Cura Italia (DL 18/2020) e Decreto Liquidità (DL 23/2020).

Le disposizioni che hanno avuto impatto anche sulle limitazioni degli spostamenti delle persone e sospensione delle attività economiche sono contenute in diversi DPCM, mentre i provvedimenti con disposizioni di grande impatto sul piano economico sono contenute nei tre provvedimenti.

Oltre a due citati DL 18/2020 e DL 23/2020, in precedenza anche nel DL 9/2020, adottato nella prima fase emergenziale.

Oltre ai noti obblighi delle persone di rendere apposita dichiarazione alle autorità preposte atta a giustificare lo spostamento per comprovate esigenze lavorative (art. 1, c. 1 lett. a), DPCM 10 aprile 2020), i provvedimenti vigenti non prevedono alcuna disposizione specifica sulle attività da svolgere fuori dalla sede di lavoro, cui sono eventualmente chiamati i lavoratori.

Peraltro, il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali e richiamato dal DPCM 10 aprile 2020, prevede che siano sospese e annullate tutte le trasferte e i viaggi di lavoro nazionali e internazionali, anche se già concordati o organizzati e non sono consentite neanche le riunioni in presenza (solo quelle urgenti ma con un numero ridotto di persone e a un metro di distanza interpersonale).

Si tratta evidentemente di ipotesi diversa da quella del lavoratore comandato dal proprio datore di lavoro a svolgere l’attività lavorativa al di fuori del comune, regione o comunque in trasferta, il quale non potrà che osservare tali direttive ed eseguire la prestazione.

La gestione delle trasferte

Quella riportata nel Protocollo riguarda trasferte e viaggi di lavoro non direttamente correlate al processo produttivo aziendale.

Naturalmente il datore di lavoro dovrà adottare tutte le misure di prevenzione per consentire al lavoratore di prestare l’attività lavorativa nel rispetto delle disposizioni previste per la sicurezza sul lavoro e, nel caso di specie, tenendo conto delle misure aggiuntive determinate dall’emergenza epidemiologica, a partire dai dispositivi di protezione individuale.

Per l’esecuzione della prestazione lavorativa assume particolare importanza per le imprese e per i lavoratori, il rispetto del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID -19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali (Protocollo per tutelare la salute e la sicurezza sul lavoro).

Tale accordo, come detto risulta espressamente richiamato dall’art. 2, c. 10, DPCM 10 aprile 2020 che ne prevede, per l’appunto, il rispetto per le imprese le cui attività non sono sospese.

Tale accordo disciplina innanzitutto un obbligo informativo per i lavoratori ed in particolare:

  • l’obbligo di restare a casa con febbre oltre 37.5. In presenza di febbre (oltre i 37.5) o altri sintomi influenzali vi è l’obbligo di rimanere al proprio domicilio e di chiamare il proprio medico di famiglia e l’autorità sanitaria;
  • l’accettazione di non poter entrare o permanere in azienda, e di doverlo dichiarare tempestivamente laddove, anche successivamente all’ingresso, sussistano le condizioni di pericolo: sintomi di influenza, temperatura, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc.

Il lavoratore chiamato a prestare attività all’esterno, invece, subirà altresì l’impatto per l’attività prestata presso imprese terze le quali debbono adottare apposite misure relative alle modalità di accesso di persone esterne all’impresa.

Al fine di ridurre le possibilità di contatto con il loro personale, esse debbono regolare l’accesso di fornitori esterni attraverso l’individuazione di procedure di ingresso, transito e uscita, mediante modalità, percorsi e tempistiche predefinite.

Il Protocollo del 14 marzo, inoltre, prevede che laddove possibile gli autisti dei mezzi di trasporto devono rimanere a bordo dei propri mezzi: non è consentito l’accesso agli uffici per nessun motivo.

In ogni caso, per le necessarie attività di approntamento delle attività di carico e scarico, il trasportatore dovrà attenersi alla rigorosa distanza di un metro.

Anche l’accesso ai visitatori deve essere limitato e qualora fosse necessario l’ingresso di visitatori esterni gli stessi dovranno sottostare a tutte le regole aziendali.

Apposita sezione è dedicata ai dispositivi di protezione individuale.

E’ infatti previsto che, qualora l’attività lavorativa imponga una distanza interpersonale minore di un metro e non siano possibili altre soluzioni organizzative, è necessario l’uso delle mascherine e di altri dispositivi di protezione (guanti, occhiali, tute, cuffie, camici) conformi alle disposizioni delle autorità scientifiche e sanitarie.

La gestione dell’assenza

Altra questione riguarda invece l’ipotesi in cui un lavoratore comandato a prestare attività lavorativa fuori dalla sede aziendale opponga il proprio rifiuto, magari per il timore di un possibile contagio (si pensi allo spostamento da un’area a rischio basso verso un’area con una presenza del contagio più elevata).

Sotto questo profilo, in assenza di specifiche disposizioni in materia, si applica la disciplina generale e dunque l’assenza, per quanto possa in qualche modo apparire giustificata, in realtà sul piano contrattuale evidentemente non può esserlo.

Pertanto, il lavoratore si esporrà alla possibile apertura da parte del datore di lavoro di un procedimento disciplinare (art. 7 L. 300/70), all’esito del quale potrà scaturire il provvedimento disciplinare previsto dalle norme disciplinari applicabili.

Peraltro, va ricordato che la sanzione espulsiva, per quanto in astratto possibile in quanto l’art. 46 DL 18/2020 limita il recesso dal rapporto di lavoro ai soli licenziamenti per motivi economici, sarà sottoposta al giudizio di legittimità in relazione all’art. 2106 c.c. secondo il quale si applicano al lavoratore di sanzioni disciplinari di entità proporzionata alla gravità dell’infrazione commessa.

Appare verosimile che la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro per una condotta di questo tipo appare fortemente limitata dall’emergenza epidemiologica in atto.

Sulle assenze dal lavoro in epoca di Coronavirus, si segnala un interessante approfondimento pubblicato il 24 febbraio 2020 dalla Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro.

(di Giuseppe Buscema – Memento+)