La Corte Costituzionale boccia il Jobs Act
La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la norma del Jobs Act che prevede il calcolo automatico degli indennizzi previsti in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti.
Si tratta di un vero e proprio terremoto nel diritto del lavoro italiano e di una spallata mortale al Jobs Act. La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 3, comma 1, del d.lgs n. 23/2015, ossia la norma cardine del Jobs Act, quella che prevede come si calcolano gli indennizzi dovuti in caso di licenziamento illegittimo ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti. Di fatto, dunque, la Corte Costituzionale boccia il Jobs Act perché in quella norma risiede la filosofia di fondo della riforma voluta dal Governo Renzi nel 2015. Ma facciamo chiarezza e qualche passo indietro.
Cosa prevede il Jobs Act?
Il Jobs Act è stato approvato nel 2015 per modificare la disciplina prevista in caso di licenziamento illegittimo. L’idea del Jobs Act è che l’azienda, quando assume un lavoratore a tempo indeterminato, deve sapere in maniera certa quanto potrebbe costare l’eventuale licenziamento del dipendente stesso. Secondo la filosofia di fondo del Jobs Act, in particolare, il risarcimento che l’azienda può essere chiamata a pagare al lavoratore qualora il licenziamento venga giudicato illegittimo deve essere certo e crescente con l’aumentare dell’anzianità di servizio del dipendente stesso.
Per ottenere questo risultato viene introdotto il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”. In pratica viene stabilito che a tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015, in caso di licenziamento giudicato illegittimo, non si applica più la vecchia tutela prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ma si applica una nuova disciplina [1].
La nuova disciplina del Jobs Act ha previsto che, ad eccezione di alcuni casi limite di licenziamento particolarmente grave (come il licenziamento discriminatorio, quello orale o il licenziamento disciplinare in cui l’azienda si “inventa” del tutto un fatto che non esiste pur di incolpare il dipendente e licenziarlo) in tutti gli altri casi di illegittimità del licenziamento il lavoratore ha diritto ad una indennità fissa e crescente pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio con un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità.
Questi tetti, minimo e massimo, sono stati aumentati recentemente dal Decreto Dignità [2]che ha aumentato la forbice: oggi il risarcimento resta di due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio ma con un minimo di 6 ed un massimo di 36 mensilità.Facciamo un esempio. L’azienda licenzia due dipendenti, Tizio con anzianità pari a 4 anni e Caio con anzianità pari a 15 anni, per giustificato motivo oggettivo. In particolare, i due dipendenti sono entrambi centralinisti e l’azienda li licenzia perché afferma che provvederà ad introdurre un centralino elettronico e dunque che le mansioni dei due dipendenti vengono soppresse. I due lavoratori impugnano il licenziamento e il giudice, in effetti, verifica in giudizio che l’automazione del servizio di cui l’azienda parlava nella lettera di licenziamento non c’è mai stata e dichiara dunque illegittimo il licenziamento. A Tizio spetteranno 8 mensilità di risarcimento ed a Caio 30 mensilità. Pur essendo del tutto identico il licenziamento ed il profilo di illegittimità del licenziamento i due lavoratori accedono ad una tutela molto diversa con una differenza economica assolutamente notevole. In questo meccanismo molti hanno visto una palese violazione del principio costituzionale di uguaglianza.
La decisione della Corte Costituzionale
Il tribunale di Roma, nel 2017, ha rimesso [3] alla Corte Costituzionale la disciplina del contratto a tutele crescenti, per contrasto con gli articoli 3, 4, 76 e 117 della Costituzione.In particolare, secondo il tribunale capitolino, sarebbe del tutto contrario al principio di ragionevolezza e di uguaglianza prevedere che l’unico criterio in base al quale determinare la somma da erogare al dipendente licenziato illegittimamente sia l’anzianità di servizio. Inoltre il Jobs Act introdurrebbe anche una discriminazione ingiusta tra assunti prima del 7 marzo 2015, che possono ancora avere accesso alla tutela dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ed assunti dopo il 7 marzo 2015 che, per il solo fatto della data di assunzione, si ritrovano con una tutela ampiamente ridotta in caso di licenziamento illegittimo.
La decisione della Corte Costituzionale
Con un comunicato del 26 settembre 2018 la Corte Costituzionale ha annunciato di aver dichiarato illegittimo l’articolo 3, comma 1, del Decreto Legislativo n. 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte – non modificata dal “Decreto Dignità” – che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4, che prevede il diritto di ogni cittadino al lavoro, e 35, che prevede la tutela del lavoro in ogni sua forma ed applicazione, della Costituzione. Tutte le altre questioni sollevate dal tribunale di Roma relative ai licenziamenti sono state dichiarate inammissibili o infondate.
Come abbiamo detto, l’idea di attribuire al dipendente un’indennità certa e crescente con l’anzianità di servizio è il vero cuore del contratto a tutele crescenti. Non è possibile stabilire sin da subito che effetti avrà questa decisione perché occorre leggere la sentenza che verrà pubblicata a breve. Quello che è certo è che la decisione della Consulta boccia il principio cardine del Jobs Act ossia la rigida determinazione a priori dell’indennità in caso di licenziamento illegittimo.
Potrà funzionare lo stesso il Jobs Act dopo questa sentenza?
È difficile rispondere a questa domanda. In linea teorica potrebbe anche continuare ad applicarsi il Jobs Act nel quale verrebbe meno però il principio ispiratore della riforma stessa. In questo caso il giudice, di fronte ad un licenziamento illegittimo, non sarebbe più vincolato ad applicare rigidamente l’indennità in base all’anzianità. Nell’esempio che abbiamo fatto il giudice potrebbe decidere che, essendo lo stesso il profilo di illegittimità del licenziamento, a Tizio ed a Caio spettano le stesse mensilità di indennità, anche se hanno anzianità diverse.In questo senso, dunque, verrebbe ridato un ruolo centrale al giudice nel decidere la quantificazione degli indennizzi. Il giudice potrebbe applicare, in questa decisione, vari criteri tra cui anche l’anzianità di servizio ma non solo.
L’ipotesi più probabile, però, è che il Jobs Act privato della sua norma cardine non abbia più senso di essere e si imponga dunque al Legislatore una completa riscrittura della materia.Il ché può significare l’abolizione del contratto a tutele crescenti ed il ritorno alle tutele dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori oppure la riscrittura del Jobs Act che tenga conto dei principi espressi dalla Consulta.
note[1] Articolo 3, comma 1, d.lgs n. 23/2015.[2] Decreto legge n. 87/2018 conv. in Legge n. 96/2018.[3] Tribunale di Roma (III Sezione Lavoro), giudice dr.ssa Maria Giulia Cosentino, Ordinanza del 26 luglio 2017.
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