Ad un dipendente delle Poste è stato riconosciuto il rapporto di causa-effetto tra gli anni trascorsi nel luogo di lavoro piccolo e pieno di fumo e la malattia – tumore faringeo – diagnosticatagli alcuni anni dopo la cessazione del lavoro.

Siamo ancora lontani dal riconoscere pienamente il risarcimento alle vittime del fumo decedute a causa di un cancro ai polmoni.E questo non perché non vi sia certezza sugli effetti dannosi alla salute che le sigarette comportano, ma per il fatto che fumare è – secondo la giurisprudenza – una scelta consapevole e cosciente, che si adotta nonostante gli avvisi espliciti riportati sui pacchetti. Come dire: «Noi vi abbiamo messo in guardia». Un po’ come avviene con gli alcolici ma non con le droghe leggere.La Cassazione cambia però il proprio orientamento quando la vittima è obbligata a inalare il fumo nocivo non per propria volontà. Il riferimento è chiaramente al fumo passivo sul luogo di lavoro.La normativa, in questo caso, è davvero scarna e risicata, ma di certo sufficiente alla Cassazione per riempire il vuoto.

Fumo al lavoro: quale legge lo vieta?

Il codice civile impone al datore di lavoro di tutelare la salute dei dipendenti adottando ogni mezzo idoneo a tale scopo.La norma parla chiaro: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Chi si aspettava di leggere di più rimarrà deluso. Ma, quando si parla di legge, il “poco” vuole spesso dire “molto”.In questo caso, infatti, la formula della norma è talmente generica da abbracciare la tutela da qualsiasi tipo di danno fisico e psichico e da imporre qualsiasi tipo di misura di prevenzione consentita dalla scienza e dalla tecnica.Anche a costo che sia antieconomica.Questo significa che, attesa la conclamata nocività del fumo passivo, il datore di lavoro deve fare di tutto per impedirlo.Non gli basta affiggere il cartello con il divieto e inserirlo anche nel regolamento aziendale a tutti visibile; non gli basta neanche minacciare l’applicazione di sanzioni disciplinari. Deve attivarsi materialmente per impedire che i propri dipendenti fumino negli spazi comuni. Come? Con l’ausilio di supervisori, ad esempio.  Detto ciò, si comprende che la normativa relativa al fumo passivo sul luogo di lavoro è già sufficiente per obbligare il datore a vietare che i propri dipendenti possano accendere una sigaretta.Le conseguenze però non possono essere di tipo sanzionatorio: il datore infatti non può comminare multe ma solo pene disciplinari (dalla sospensione dal soldo e dal servizio finanche al licenziamento).Nei posti della pubblica amministrazione quest’obbligo di tutela della salute si accompagna con il più generale divieto di fumare in luogo pubblico o aperto al pubblico. Ad esempio, in un ospedale o in un ufficio del Comune i dipendenti non potranno accendere la sigaretta e, solo in tal caso, possono essere multati trattandosi di ambienti aperti al pubblico.La multa potrà essere comminata però solo da un pubblico ufficiale e non dal datore di lavoro o da un suo preposto. La multa poi deve essere corrisposta allo Stato e non all’azienda.

Fumo passivo sul lavoro e risarcimento del danno

Dal divieto passiamo al risarcimento.Se il datore di lavoro non fa di tutto per evitare che i dipendenti fumino è personalmente responsabile. Significa che dovrà risarcire la vittima del fumo passivo non potendo scaricare la colpa su chi ha contravvenuto al divieto. È questo l’indirizzo espresso dalla Cassazione.  La normativa sull’obbligo di risarcimento alle vittime del fumo passivo sul lavoro si ricava sempre dal codice civile ed è diretta conseguenza del dovere di garantire idonee condizioni di sicurezza psicofisica dei dipendenti.Nel caso di specie sono bastati 14 anni di fumo passivo, a un dipendente di Poste Italiane, per contrarre un tumore alla faringe.Subito è scattata la causa contro l’azienda, colpevole di non aver impedito il fumo negli ambienti lavorativi. Per i giudici, prima in tribunale, poi in Corte d’Appello e infine in Cassazione, è assolutamente legittima la pretesa avanzata dal lavoratore.Nessun dubbio, in sostanza, sul «nesso» fra «patologia diagnosticata e attività lavorativa». Soprattutto tenendo presente che, come certificato da un consulente, «l’uomo era stato esposto in modo significativo all’inalazione di fumo passivo – riconosciuto, secondo le acquisizioni della scienza medica, quale causa di cancro delle vie aeree superiori – per quattordici anni e per una media di sei ore al giorno». Irrilevante, ribattono i Magistrati del Palazzaccio, il richiamo dell’azienda all’«intervallo temporale» tra la cessazione del rapporto di lavoro – risalente al febbraio del 1994 – e l’insorgenza della patologia, avvenuta nel dicembre del 2000.

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note

[1] Cass. ord. n. 276/19 del 9.01.2019.[2] Art. 2087 cod. civ.